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Monica Silva tra fotografia e realtà

03 aprile 2020  |  4 minuti

Conosciamo Monica Silva come fotografa di successo. Quello che in pochi sanno è che la sua carriera non nasce come passione quanto come esigenza di trasformare esperienze, magari drammatiche, in creatività. Questa sua abilità l'ha portata ad essere in grado di catturare il meglio da ogni soggetto che ritrae, facendo risaltare cose che normalmente non saremmo mai in grado di cogliere ad occhio nudo.

Ogni sua immagine è in grado di comunicare qualcosa di profondo, ma come comunica al di là della fotografia? Ce lo siamo fatti spiegare da lei nell'intervista che puoi trovare qui sotto.

Buona visione 👇

 

Come è nata la fotografia dentro di te?

È stata una cosa inaspettata. Quando vivevo in Brasile, mi sono vista ritratta per la prima volta su una fototessera a 17 anni: prima di allora non ho mai avuto uno scatto di me, non so come ero da piccola, come mi vestivo, chi frequentavo, cosa facevo. Per quello dico sempre che sono nata a 17 anni.

Ho iniziato un percorso che definirei "terapeutico", in cui mi facevo tanti autoscatti perché mi sentivo a disagio e cercavo di capire come mai. Volevo vedere come le persone mi vedevano e facendo questa ricerca ho scoperto un mondo. Ho scoperto che la fotografia, o l'autoritratto in sé, è una cosa insita nell'essere umano, il cui desiderio è sempre stato quello di lasciare una traccia. Grandi artisti come pittori o scrittori hanno trovato un mezzo per comunicare qualcosa di sé, hanno lasciato un segno eterno proprio per compensare il fatto che l'essere umano non è eterno. È stata una scoperta particolare: ho cominciato a leggere libri sulla psicologia e sulla psicologia clinica dell'immagine, fino a scoprire l'uso della fotografia terapeutica, dove si utilizzano le immagini per curare le persone e scoprire, magari, qualcosa di più.

Ho trovato un modo per riscoprire e curare me stessa e conoscere dei lati di me che prima ignoravo. Ho fatto dei diari dove mi facevo uno scatto e descrivevo come mi sentivo nel momento che l'avevo catturato. Ho scoperto mille donne dentro di me e ho notato che ogni scatto è un modo per alleggerirmi da disagi e problemi del passato... e paradossalmente esce bello.

Nonostante abbia vissuto il primo periodo della mia vita nella violenza e nella bruttezza, non riesco a ritrarre la decadenza.

Quindi grazie a questo percorso, sei riuscita a ricavare delle cose positive?

Possiamo decidere di vedere il bene o male in tutte le cose. Sta a noi decidere se tirare fuori ciò che c'è di positivo sia dentro noi stessi che altre persone. La macchina è uno strumento che uso come terzo occhio, perché quando guardo nel mirino vedo cose che a occhio nudo non vedo: vite, luci, espressioni... Ho impiegato davvero tanto per comprendere questa sfumatura, per questo mi preoccupa questa tendenza alla diffusione delle immagini, dove l'autoritratto è diventato così accessibile.

Tu che sei una professionista del ritratto e con la macchina riesci a captare energie o cose che altri non vedono, come è il tuo rapporto con la "cultura del selfie"?

Penso che ci sia una grandissima confusione di identità: se prima si utilizzava qualunque supporto per permettere di lasciare una propria traccia, ora c'è una rincorsa a dire "io sono anche qua". Se pensi che ogni giorno vengono caricate 5 milioni di immagini sui social, non si ha davvero l'opportunità di approfondire ciò che si vede. È tutto un rigurgitare di foto per emulare i famosi, perché li ammiriamo e vorremmo essere come loro. È una corsa all'immagine perfetta perché qualcun altro l'ha fatta prima e bisogna dimostrare di non essere da meno.

Facendo così però perdiamo la nostra identità. Vedo persone che hanno paura della fotografia e nonostante ciò si fanno dei selfie per dire "esisto!". La nostra necessità autobiografica perde di significato e magari, tra 10 o 15 anni, neanche ci riconosceremo più. Dato che poi è molto difficile cancellare qualcosa in rete, prima di scattare e pubblicare qualcosa, dovremmo chiederci se quella foto ci rappresenta, se ci ritroviamo in quell'immagine. Altrimenti è come avere una maschera... come recitare un ruolo! 

Oltre agli scatti e ai video delle cose che ti emozionano, cosa posti sui tuoi profili per i tuoi follower?

Alcuni follower sono artisti che mi hanno scoperto e che seguendo i miei lavori sono cresciuti sul lato creativo. Dato che faccio psicologia del ritratto, penso però che molte persone mi seguano proprio per questo motivo: sentono la necessità vedermi e di vedere cosa pubblico perché sono di ispirazione per loro, le faccio stare meglio. Persone da tutte le parti del mondo mi dicono: "quando non sto bene vengo sulla tua bacheca perché mi fai stare meglio". Questa, ovviamente, è anche una responsabilità che sento verso le persone, quindi a volte mi sforzo di condividere qualcosa con loro anche se in realtà in quel momento non me la sento.

Poi ovviamente i fans vogliono sapere cosa stai scattando, con che luce, con che macchina, chi è il soggetto... È bello anche poter condividere queste cose. In più quando le persone ti vogliono bene, ti voglio bene veramente. Se non pubblico per una settimana si preoccupano per me! Lì ti rendi conto che il mondo dei social va oltre il dire "guarda dove sono di bello oggi" e diventa uno "stai insieme a me, così ho la possibilità di mostrarti cosa sto facendo e come lo sto facendo".

Ti abbiamo conosciuta a TEDxRovigo qualche anno fa. Oggi sei da Archimedia per uno shooting e hai ritrovato le stesse persone, ma a ruoli invertiti: cos'hai visto in noi?

Ho trovato delle persone motivate, disponibili, simpatiche e che hanno voglia di dare il meglio di sé. Il compito del fotografo e della fotografia è proprio tirare fuori il meglio dalle persone con un'immagine che rappresenti il loro lavoro, la carriera, la personalità. Non è una cosa facile perché non basta dire "sorridi" e scattare. In più io tocco, giro, faccio parlare e faccio sorridere i miei soggetti, perché a volte la macchina mette anche soggezione. Poi però è bello quando si avvicinano per vedere gli scatti appena fatti e noti in loro la felicità perché si riconoscono nella loro versione migliore... perché si piacciono. Questo è il mio obiettivo, quello che dovrebbe avere ogni fotografo!

 

Per Monica la fotografia è comunicazione, terapia e un modo per tirar fuori il meglio da tutti. Noi condividiamo in pieno questo messaggio e ci auguriamo che gli stessi principi possano estendersi ad ogni forma di comunicazione.

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